Mettere le calorie nei menu? Non conviene (ai ristoratori)

In questi ultimi tempi si sta discutendo tanto, soprattutto in America e in Gran Bretagna, i Paesi occidentali più colpiti dalla pandemia dell’obesità, sulla possibilità che tutti i ristoranti ma soprattutto le grandi catene di ristorazione inseriscano le calorie nei menu: una decisione che per alcune catene, come McDonald’s è già stata attuata da tempo, ma che presto dovrebbe coinvolgere anche le catene di ristorazione e i ristoranti europei e italiani. 
In una società dove la cucina è spesso idealizzata e rilanciata tramite millemila programmi, la necessità che le persone sappiano quante calorie ci siano nei piatti che vedono o che ordinano quando mangiano è un fatto.
Le persone infatti tendono già a sottostimare le calorie di quello che cucinano o mangiano anche senza andare al ristorante: una cosa evidenziata da molti studi, e che in parte spiega perché molte persone prendano peso pur dicendo agli altri e a se stesse di mangiare poco. Figuriamoci quando si va a mangiare fuori. Pensate se tutti noi fossimo consapevoli delle calorie di una pizza capricciosa dalla pizzeria napoletana che amiamo frequentare, o del tiramisù che gustiamo nel bar pasticceria la domenica; o le (vere) calorie dei cornetti al bar, che no, non si attestano sulle 200-250 come alcuni credono.

Ma i problemi relativi alle calorie nei menu, che rendono questa cosa inutile e quasi irrealizzabile sono due:
– le calorie sui menu possono essere precise solo nei ristoranti di catena, meno nei normali ristoranti: questo perché non si può chiedere allo chef di contare l’olio che usa nei soffritti, di pesare la pasta, di considerare le calorie delle parti grasse della panna o del burro o dello zucchero nei dolci. Nei ristoranti di catena, dove il cibo è preporzionato, è ovviamente più semplice: chi ci lavora deve solo riscaldarlo, o seguire le istruzioni per la preparazione. Ci pensa la azienda a preporzionare.
Ma anche lì: se già al supermercato le aziende alimentari toppano con le calorie dei loro cibi anche di un dieci, venti per cento, o addirittura, come si è scoperto in un documentario, persino della metà rispetto a quanto dichiarato sull’etichetta (la cosa sarebbe illegale, ma chi ha tempo e voglia di controllare tutti i campioni dei prodotti sugli scaffali di un supermercato?), figuriamoci se il consumatore può essere davvero consapevole della correttezza delle calorie nei menu.

Ma c’è un’altra ragione per cui le calorie nei menu sono per il momento una chimera.
Non convengono ai ristoratori.
Infatti il consumatore tende a ordinare il 12% in meno del cibo se è consapevole di quante calorie ha, e mangia un ottavo in meno delle calorie che consumerebbe se non ne sapesse nulla.
Il che è una buona cosa per lui, ma non per chi quel cibo lo vende. A meno di non modificare l’offerta, e proporre da subito piatti o bevande meno caloriche, come ha fatto Starbucks.
I ristoratori britannici lamentano una riduzione dei ricavati, mentre le aziende alimentari in Gran Bretagna devono ridurre del 20% le calorie dei loro prodotti entro il 2024. 
Basterà questo a farci dimagrire?